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L’ultimo giorno dell’anno – di Sara Milla

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Tra le varie cose che aveva comprato, c’era, in un sacchetto di carta, un bel broccolo per l’insalata forte. Una volta l’aveva mangiata, e costi quel che costi, avrebbe rinnovato la tradizione. Erano solo lei e Livia, quella sera. Lei non aveva mai niente da fare l’ultimo giorno dell’anno, non la invitava nessuno, la famiglia era lontana e i biglietti ferroviari sempre più cari.  Livia, stranamente, se ne sarebbe stata a casa. Così avevano concordato la cena, piuttosto esigua perché Livia era sempre a dieta e poi andava a ripulirsi i piatti brandendo un tocco di ciriola integrale. Perse del tempo nel cortile per frugare nella borsa alla ricerca delle chiavi, ma poi si avvide che le signore del quarto e quinto piano stavano uscendo dal portone e si affrettò ad approfittare. Così, dopo averle brevemente salutate percepì con chiarezza quello che la signora del quarto stava proferendo al suo indirizzo: eccole, stasera faranno i fuochi. Non tanto la frase, abbastanza incomprensibile, quanto il tono la colpirono. Fermò con la spalla il portone che si richiudeva e le guardò incuriosita.

-Prego?- chiese. Le due si guardarono e girarono il culo prese da una fretta improvvisa. Forse era il giorno così freddo ed elettrico, il broccolo verde che già la infastidiva con quell’odore si, forte, ma francamente insopportabile, forse questo od altro, per cui lei alzò di più il tono:

-Dicevate a me?- Una si arrestò come accalappiata dalla voce di Gea, l’altra rimase di tre quarti, un po’ guardando Gea un po’ il cancello per svignarsela.

-Si. Certo che si!- si liberò la signora del quarto –Che non se ne può di avere nel palazzo due gheie-

Due che? Pensò Gea, e subito si avvilì, poteva essere che ancora giovane stesse già diventando sorda come sua nonna? Lasciò stare il portone e si avvicinò di due passi alle signore:

-Scusi sa, ma non ho capito-

-Ah! Non ha capito, e abbiamo capito noi!-

-Si, mi fa piacere, ma vorrei capire pure io-

-Non fare la finta tonta-

Allora Gea cominciò ad interrogare con gli occhi l’altra signora, quella di profilo come gli egizi, ma quella non stava ferma con il collo, guardava in aria, perlustrava nervosamente le finestre che davano sul cortile,  poi puntava il brecciolino, e mormorava qualcosa all’orecchio della più bellicosa, probabilmente cercando di calmarla, ma più realisticamente suggerendole nuovi argomenti di litigio.

-E infatti-annuiva l’altra- Infatti!- incalzava con più sicurezza:

-Già che tutte le sere è Capodanno, da voi!-

-Ma è sicura di non sbagliare con qualcun altro?-

-Ah no, bella mia, no no, proprio voi due, gheie gheie e gheie..Ah l’ho detto!-

Si, ma che ha detto? Riflettè Gea.

Intanto si erano spalancate un certo numero di finestre, e da sotto in su si notava una bella schiera di seni infagottati in vestaglione rosso natalizie, musetti puntuti di ragazzini curiosi, uomini spettinati e annoiati che si piazzavano a braccia conserte sui davanzali.

-E’ così- mormorava l’altra, -E’ così, tutte le sere sospiri e urli, ma un po’ di decenza, c’è la vecchia di sotto che non ne può più, ha detto che sembrate le anime del purgatorio, ma quale purgatorio, dico io, là c’è già l’inferno!-

Gea era rimasta immobile con una sporta per braccio, la sciarpa a mezzo strangolo intorno al collo, i capelli corti e sudati e la mascella che non ne voleva sapere di stare su.

-E’ uno scherzo, vero?- mormorò conciliante, con la faccia malsicura di chi vuole mostrare di non esserci cascato nemmeno un istante.

Quelle le si fecero sotto:

-Ma che scherzo e scherzo, voi siete uno scherzo della natura, che brutto scherzo che v’ha fatto!-

A quel punto Gea ne ebbe abbastanza. Aveva passato delle feste da schifo, a piangere, si proprio a singhiozzare sola come una deficiente davanti alla lettera della madre che non faceva altro che raccontarle nel dettaglio di quanto loro avrebbero festeggiato perché la sorella si era pure fidanzata e quindi festa grande, ma tu non venire che ti stanchi e poi non ci sono i soldi. Quindi si era attaccata a tutta la cioccolata presente e passata a disposizione in quella casa piccola, fredda e luminosa che spartiva con questa sua amica di occasione, sbarcata pure lei nella città “illuminata” a cercare lavoro e a finire gli studi. La conseguenza era stata una colica talmente violenta che i lamenti si sarebbero sentiti pure su Marte. Infine, quando suonata come un pugile stava cercando di ricostituirsi un po’ di serenità, arrivavano queste due sfingi incomprensibili a fare una scenata in cirillico. Fece un passo avanti e si piazzò appena sopra il muso di una delle contendenti, di non si sa bene cosa.

-Senta, non capisco quello che vuole dire. Si spieghi meglio-

A questo punto la donna cominciò a sbracciarsi in maniera impressionante, chiamando a conforto l’innocenza dei bambini del casamento, che per dirla tutta erano dei veri gaglioffi patentati, mai visti ragazzini così, la purezza delle giovinette da marito, che ad essere sinceri, occupavano con i loro filarini tutti gli anfratti del vasto cortile nelle notti di plenilunio ma prevalentemente in tutte le altre, la moralità elevata delle famiglie lì stabilite, se si eccettuano le espressioni più accese di cui i membri delle famiglie suddette si pregiavano continuamente di apostrofarsi, la più comune delle quali solitamente era costituita dall’ansiosa domanda che ognuno di essi si poneva sulla prossima dipartita degli altri, alla quale sarebbero seguite feste epocali con carri allegorici meglio di quelli di Viareggio.

Più l’altra divincolava se stessa, più Gea ritrovava la sua compostezza. Quando finalmente la donna si tacque con gli occhi chiusi e una mano sul cuore in affanno, lei scandì con molta dolcezza:

-Scusi, mi potrebbe spiegare a cosa si riferisce quando pronuncia la parola gheie?-

La povera signora riaprì gli occhi di colpo, talmente di colpo che barcollò all’indietro, come se qualche molla partendo dagli occhi avesse allentato i tiranti sulla schiena e lei si fosse ritrovata sbilanciata troppo in fretta. La sua amica la sostenne prontamente.

Seguì un inaspettato silenzio, poi le due sibilarono all’unisono:

-Che schifo!-  girarono sulle suole e se ne andarono a passo dell’oca fuori della zona Casamento immacolato.

Gea rimase a capo chino, a riflettere. Qualcuno, dall’alto, nel silenzio generale, s’impietosì:

-Ghei, voleva dì ghei, siete du ghei, tu e l’amica tua.- Nemmeno il tempo di alzare la testa e decifrare il volto a cui apparteneva quella voce e si produsse lo scatto corale di tutte le finestre che si richiudevano.

Il sole era alto, ma freddo, lontano. Il cielo bello, un ottagono di smalto chiuso dalle cime dei settori del caseggiato. E Gea era ghei, molto meglio che gheie, riflettè. Cercò con pazienza le chiavi e aprì il portone. Risalì verso il quarto piano, aprì la porta e urlò: sono tornata, amore mio!- e richiuse pesantemente.

Livia aveva messo la pentola con l’acqua sul fuoco, e le diceva impaziente:

-Ma quanto ci hai messo, hai portato la pasta?-

-Si bel bocconcino mio- rispondeva con i toni più acuti in suo possesso Gea.

-Ecco brava, che qui già bolle-

-E lo so! Lo so che sei tutta un bollore!!-

-Si, Gianni m’ha piantata, da tre giorni, altro che bollore, c’ho la centrale nucleare al massimo-

- Lo so io perché t’ha piantato-

Finalmente Livia le prestò attenzione

-Perché? Non lo sapeva manco lui lo sai tu?-

Gea annuiva esageratamente mentre pesava i centocinquanta grammi di pasta e li passava a Livia, urlando per altro: -Prendi, bocca di rosa!-

-Ma che strilli, mica sono sorda come tua nonna-

-Ti ha lasciato perché sei GHEIE!-

-Ma che dici?-

-Sei gheie, confessa, fai  spelling-

-G, eich ie, ai..ma si può sapere che dici?-

-Ma come, mia adorata, non lo sai che io e te siamo gheie? Lo sa tutto il caseggiato, pure Gianni mi sa, meno io e te, lo sanno tutti, che vogliamo fare?- E intanto sporgeva le labbra e socchiudeva gli occhi.

-Ma dici gay? Dicono che siamo amanti?- chiedeva Livia tutta eccitata

-E si bella mia, hai avuto occhio con me- Intanto prendeva un pugno di sale e lo tirava nella pentola.

-Ma che sei matta! Tutto quel sale mi raddoppia la cellulite-

-Ma mi piaci così, stellazza!-

-Gea, ma tu capisci che abbiamo svoltato?-

-Si? E per dove?-

-Per l’acchiappo-

-Non cominciamo con le parole forti, mi devo abituare-

-Ma no, ma ti rendi conto che rete per i ragazzi?-

-Quali ragazzi, mi vuoi già tradire? Fallo almeno il prossimo anno, è così riposante essere gheie, poi io una ragazza non ce l’ho mai avuta. Veramente manco un ragazzo, se si toglie Savino ma non conta che avevamo dieci anni-

- Ma che cosa abbiamo fatto per farci questa nomina?-

-E’ colpa mia, la colica di Natale. Ho usato dei toni, come dire, erotici. Che ridi, non ridere che si credono che abbiamo ricominciato. Dai su, si scuoce la pasta, non ridere, vabbè spengo, mangiamo al dente. E piantala.-

-Mangiamo poco, solo la pasta, che stasera ci sono un bel po’ di schifezze-

-Speriamo che non mi riviene la colica, sennò ci mandano  i vigili del fuoco-

-Magari-

-Spudorata-

Silenzio.

-Mi spiace per Gianni-

-Anche a me, mi sembrava quello giusto.-

-Non penso ci sia, uno giusto. Penso che bisogna aggiustarsi ogni giorno se si vuole stare insieme.-

-Hai ragione, ma non mi posso adeguare sempre io-

Silenzio.

-Gea?-

-Si?-

-Se fossi un ragazzo ti sposerei, anche se fossimo gheie ti sposerei.-

Silenzio.

-Grazie-

-Buon anno Gea-

-Buon anno Livia-

 

 


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