Quantcast
Channel: La Valle dei Templi » narrativa
Viewing all articles
Browse latest Browse all 10

La Lettera – di Sara Milla

$
0
0

-Sono le inesattezze, vede, le inesattezze, quelle formicolanti sciatterie, quel fare bleso della lingua quando non si collega alla memoria, e la parola  esce deformata dalla fessura dei denti-

-Lei non piace a molta gente, sa?- lo interruppi

-Vede,- replicò- anche lei non può non sottostare al principio dell’inesattezza, quella specie di sasso che vola con traiettoria indecisa e atterra sulla testa di qualche malcapitato, che ne chiede ragione a un ben nutrito gruppo di persone con le mani in tasca.-

Rispose così per farmi arrossire, ma non sono tenera io, e rimasi a fronteggiarlo.

-Sarò più esatta, lei non piace a me, e a persone della sua stessa famiglia, e se vuole sarò ancora più precisa-

- Non è di questo che stavamo parlando, mi sembra, ed è inutile che lei cerchi di distrarmi con frasi ad effetto. Ho già l’elenco chiaro delle mie inimicizie, ma non mancherà occasione di confrontarlo con il suo. Ora, il punto è, perché non trova più la mia raccomandata?-

-Non sono il suo postino!-

-Ma è la portiera di questo stabile, mi sembra?-

-E allora?-

-E allora dopo una breve ricerca, sono venuto a capo di una circostanza, e cioè che la lettera che attendevo a mezzo raccomandata è stata data in consegna a lei, c’è la sua firma sulla ricevuta. Cosa ne ha fatto, l’ha accartocciata e ci ha pulito i vetri?-

E poi c’erano quelle due mani, vicine.

Non dovrebbe capitarmi, ma accade che in preda all’ira, la scena si muti da sola. Il Letterato se ne stava tre gradini sopra di me, rigido impalato, ed io aggrappata al mancorrente di ottone, pronta come un gallo da combattimento. Se non che, di fronte alla sua domanda circostanziata, dove mi si accusava di aver perduto una raccomandata o peggio, la mia memoria si mosse in modo del tutto imprevisto, si dice così no? In modo del tutto imprevisto. Ora rivedevo le mani accanto di due uomini, su un treno, uno di quei treni sporchi e feroci che traballano sulle rotaie liquefatte dal sole.

Due uomini che dormivano, o almeno, che avevano gli occhi chiusi, e le mani aperte, unite dalle manette corrose che non rimandavano che una tristezza di ferro.

-E’ inutile- penso, -Un viaggio inutile-

-La vedo turbata, ho quindi colto nel segno?- Incalza il Letterato – Lei perde le lettere, lei perde tempo a ciabattare per questo nostro disgraziato palazzo, lei se ne sta negli angoli ad affumicare l’androne con le sue cicche, e il bel quadro che offre dall’interno della sua guardiola? Un Velasquez, non c’è che dire-

Il nome straniero, sconosciuto, mi parve subito un insulto, ma di quelli ai quali non si può reagire.

Mi parlava ancora mentre mi allontanavo? Non so, probabilmente se ne sarà stato per lungo tempo a riflettere sul bordo delle scale, e poi, con una alzata di spalle si sarà presto condotto verso  la sua porta di rovere e targa di ottone. Certo il caso era strano. Ma una ragione sarebbe saltata fuori. Mi avviai piuttosto stanca verso la guardiola fredda, in faccia al portone spalancato su un giardino severo. Al mattino si era subito rivelata la nebbia. Aprendo il pesante battente  era entrata nell’androne come fosse il fumo di un camino. Il giardino, i grandi alberi, le zone nascoste al sole, la sommità dei tetti avevano intorno quel velo incerto. Era insolita, fredda, ma ero rimasta a guardare, a respirare. Sembrano tutte uguali le mattine, e ad un certo punto, ti auguri che lo siano. Il Letterato mi innervosiva, ma in fondo lo compiangevo. Il suo giro era angusto, peggio del mio. Per questo, mi dicevo, tutta quella buriana per una raccomandata. Importante era importante, lo sapevo. L’avevo letta. E poi gettata. Passava il camion a raccogliere i rifiuti. Ormai la sua raccomandata era cibo per gabbiani.

Mi ero quasi divertita a leggerla. Mi ricordava un’altra lettera, di quando ero giovane, e me ne andavo con un passo leggero verso l’abisso. Scossi la mano per spostare i ricordi. Vuole l’esattezza, il Letterato? L’ha avuta. Ho fatto a pezzi la risposta dell’Amministrazione che mi deportava, si, parola esatta, mi deportava al civico 88. La firma, la mia firma, era uno scarabocchio indecifrabile. Sanno tutti invece che io firmo precisa con zampe di gallina perché sono una analfabetica meridionale, africa, quasi africa.

Prima di chiudere il portone, si assembra la notte, c’è un’aria fredda, bianca, come di neve, faccio il giro del giardino e serro il cancello. Un cancello pesante, corvino. C’è sempre un freddo, anche d’estate, un’ombra assidua, un logorio di muffe. Sono questi posti, questa città, che si affaccia su un fiume, le cui fondamenta si contrastano con  muschi tenebrosi, e il cielo color burro si distende sui tetti rossastri, comignoli come torri, facciate neutre, sofferenti. Sono arrivata giovane e diventata vecchia in un colpo solo, su questi scaloni di marmo, privi del calore delle case strette del paese mio. Appena fuori c’è una campagna piatta, dove vado a guardare niente, magari il volo legnoso degli uccelli sul fiume. Nelle domeniche di piazza, qui tutti sfoggiano una ricchezza impensabile, girano intorno ad una fontana, o lungo i ponti facendo la ruota come pavoni. Certo è curioso, mi andavo dicendo, che proprio ora, mi tornava alla mente il viaggio, l’unico della mia vita. Ritrovandomi tra le mani una lettera che sapevo, in qualche modo, sentivo, contenesse il mio destino, per la seconda volta non avevo esitato. Non è vero che si cambia. Non si cambia mai, essere se stessi è una condanna.

La raccomandata l’aveva consegnata un postino nuovo,un volante, come li chiamavano lì, un supplente. Ero in guardiola, china su un  giornale, di quelli gratis che ti danno in galleria, vecchio di due giorni, ma che importa, il tempo non passa mai, si incaglia in tanti di quei spinosi particolari che non si sa come sfuggirgli. Avevo appena alzato lo sguardo, tanto per scorgere la mano che mi porgeva la lettera e mi chiedeva del Letterato, storpiandone il cognome, mezzo slavo.

-Dai qua- avevo detto. Gli avevo scarabocchiato il registro ed ero rimasta sola con la lettera. Il ragazzo non era andato via subito, sostava nel riquadro del portone –Che bel freddo signora eh?- aveva urlato verso di me, ma guardando in alto, dove doveva esserci quel cielo scolorito, appena più grigio.

-Va in malora- Questo per essere chiari. Con me non si scherza. Dentro l’armadio c’è una cornice con un ritratto. Una foto. La mia. Avevo diciassette anni, i capelli neri, e un amore. Vivevo in certe campagne ardenti che qui se le sognano. Non sono nata in un luogo mite dai colori spenti, dalle tinte incerte. I campi gialli, i cieli turchesi. Dall’alto della collina si cercava la linea blu del mare. La terra era nera, e in estate arsa, a starvi bocconi si notavano spaccature e ferite, e a stendersi con il viso verso il sole si rischiava di rimanerne gravide. Passava poca gente, e chi si fermava a fare due parole veniva segnato, o lasciava un segno. Per questo è accaduto tutto. Fosse stato sotto questo cielo umido, avrei lasciato correre, avrei pianto e dimenticato. La forma della terra che calpesti dà forma anche a te. Così arrivò la lettera. La seconda. Ma nessuno la comprese. Rimase per giorni sul comò di mia madre, e ogni tanto andavamo a leggerci dentro, ma ci perdevamo, come entrare nel Bosco Alto, incamminarsi per un sentiero e accorgersi che finisce incontro a un albero, per uno scosceso. Erano tutti turbati, anche se continuavano la loro vita.

Io avevo un amore. Che venne un giorno, non per prendere me, ma mio padre. Venne con una divisa e gli mise i ferri ai polsi. Scavarono nell’orto e non trovarono niente. Rovistarono nella casa e non trovarono niente, poche cose, i bacili di ferro in cui ci lavavamo, le brande su cui dormivamo e le assi su cui era piegata la nostra biancheria. Lui non mi guardava, e neppure mio padre. Stava seduto su una panca, con gli occhi alla terra, il viso morto.

Scendevano a valle e io li seguivo. Mia madre non aveva le braccia per tenermi. La sola cosa che avevano trovata, in evidenza, era la lettera. E il nostro nome. Fecero salire mio padre su un treno, un giorno, per tradurlo in una prigione lontana, lui che camminava scalzo e percorreva ogni giorno la strada che portava ai campi del padrone. Un mondo che c’è ancora, nella coscienza sporca dell’universo. Su quel treno sedevo anch’io. Distante. Vedevo le mani dei due uomini tenute assieme dal ferro che gli segava i polsi. Il mio amore, e mio padre. Solo le mani e i polsi, il cotone pesante della divisa e il fustagno logoro della giacca di mio padre. Avevo caldo, il collo mi sudava per la massa pesante dei capelli, per l’aria soffocante dei vagoni, per la tristezza della vita che era diventata incomprensibile. Guardavo il paesaggio svanire e ricomparire mille volte nella corsa del treno, e riflettevo. C’era un lettera, la seconda, perché la prima, sempre dello stesso padrone, era passata nelle mie mani, e il mio cuore si era ammutolito. Nessuno comprendeva la seconda perché nessuno sapeva della prima. La prima chiedeva un delitto. La seconda minacciava una vendetta. Potevo lasciare che la prima arrivasse alle mani di mio padre? Gli si ingiungeva di uccidere il mio amore e se necessario anche me, perché non si possono seguire due leggi e magari con quella ufficiale farci pure l’amore. Pensavo, pensavo, in quell’estate dove le notti erano abitate da una luna che sembrava dovesse toccare la terra, che non potevano chiedere questo a mio padre. Pensavo che mio padre si sarebbe ucciso. E così distrussi la lettera. La prima lettera senza la quale nessuno comprese la seconda. Poi lasciarono che per ironia della sorte, il mio amore concludesse la loro vendetta: la seconda lettera rivelava che mio padre riceveva degli ordini, ai quali forse non aveva obbedito, quella volta.

In questa città c’è un carcere, dove mio padre non ce l’ha fatta. L’ho seguito, su quel treno, ho parlato con tutti di quella lettera, ma nessuno mi ha creduta. Sono rimasta qui, dove vive il mio amore, che ha una bella famiglia occhioazzurrina.

Nessuno mi ha creduta.

Sono rimasta qui.

Tra le mura umide di questa città, immersa nel pianto continuo della pioggia, della nebbia che indora i suoi vapori nei pressi della luce gialla dei lampioni. Mi sembrano stelle plebee, e mi consolano della mia violenza.

Ora è diverso. Nessuno prenderà quello che è mio. Ho imparato a crescere sui muri, in silenzio, come una polvere. Non c’è il sole a stanarmi, né l’amore, né la pena.

Non c’è niente, non c’è stato niente. Nessuna lettera, nessun postino, nessuna verità.

 

 


Viewing all articles
Browse latest Browse all 10

Trending Articles